once upon a time
Un fresco piacevole e un cielo stellato illuminato pacatamente dalla luce soffusa della Luna: è in uno scenario come questo che verrà raccontata la nascita della piccola Ianae, il primo giorno di una primavera lontana, in una piccola abitazione del villaggio di Savia: a un paio di giorni di viaggio da Narbet e nel cuore della Terra della Notte. Nulla di vero in queste parole, neanche il suo nome.
Gisla nasce nella Terra dell’Acqua, più precisamente in un rifugio nella Foresta Occidentale, ma viene strappata fin da subito dalle braccia esauste di sua madre Nimphadora per essere consegnata alle mani del suo padre naturale: il suo nome è sconosciuto a chiunque non desideri fare una fine poco decorosa; è conosciuto con l’appellativo di Viserion, ma pochi osano pronunciarlo, se non hanno in mente una trattativa ben precisa da portare avanti. Il potente mago non si adopera per nulla, se non può trarre un rendiconto dalla sua attività: e perfino la piccola Gisla, venuta alla luce da pochi minuti, fa già parte di una sua strategia.
Non conoscerà mai sua madre, non saprà neanche del suo vero nome per lunghissimo tempo.
Lontana dai raggi del sole, che non toccheranno la sua pelle nemmeno una volta per molti anni ancora, la bimba cresce in una famiglia adottiva che di avere figli, ormai, non sperava più. La somiglianza con uno dei parenti fittizi è incredibile: Ianae – così viene chiamata – presenta l’incarnato candido della madre Soe – un’avvenente mezzelfa di trent’anni, la cui fertilità è stata messa a dura prova da un aborto in giovane età – come anche i suoi stessi occhi violetti, le orecchie a punta, i capelli neri come l’inchiostro. In effetti, la bimba presenta molto poco dei tratti del nuovo padre: Faer, un sarto particolarmente abile, ben noto per i suoi tessuti in buona parte dei territori che circondano la cittadina in cui risiede. Da lui acquisirà tuttavia buona parte delle caratteristiche le quali andranno ad arricchire la sua personalità: l’allegria, la spensieratezza, la curiosità verso il mondo che le ruota attorno e non sembra fermarsi mai.
Viserion non riscuote un prezzo per la cessione di Ianae, Soe e Faer non se ne preoccupano. Ingenuamente, ignorano l’intera faccenda, forse troppo presi dalla felicità dei primi giorni con la nuova figlia, senza sapere che proprio questa loro decisione di tenerla con loro li porterà alla rovina.
Per i primi sette anni della sua vita, la piccola Ianae cresce al fianco della protettiva genitrice e, dal suo arrivo nel loro ristretto nucleo familiare, anche del fratello minore Ivlis, la cui nascita miracolosa la segue pochi anni dopo. Mentre il padre conduce il proprio carretto per le vie che comunicavano Savia e Narbet al fine di portare a termine commerci e trattative, è lei ad occuparsi con la madre dell’erboristeria dove tanto assiduamente lavora, sviluppando delle rudimentali capacità in materia che in futuro le torneranno molto utili.
Le carte in tavola cambiano quando, durante uno dei suoi viaggi di lavoro per condurre le merci alla fiera estiva di Narbet (una delle fiere stagionali della capitale nella Terra della Notte), il carro di Faer si ribalta, provocandogli una brusca caduta che lo lascerà claudicante per il resto dei suoi giorni. Privato della sua stabilità, è obbligato a chiedere il supporto della famiglia e Ianae, che ormai di anni ne ha otto, è più che pronta a fornigli tutto l’aiuto di cui è capace.
Ed è in questo modo che comincia la sua prima avventura fuori da Savia, in cammino per raggiungere il laboratorio di Wordon: un uomo imponente, perennemente sporco di fuliggine, del quale la bambina ha visto poco durante le sue visite alla sartoria del padre. Ne ricorda il sorriso bonario, sì, ma soprattutto ha conservato l’immagine del volto efebico di suo figlio, lo sguardo freddo che le ha rivolto scorgendola a sbirciare al di là di una porta, il colore verde e intenso dei suoi occhi. L’aveva già deciso, in quel momento: che sarebbero diventati amici; non che ci avesse ponderato, ma l’aveva più o meno realizzato dentro di sé.
Così, quando viene invitata a salire sul veicolo traballante dell’uomo, la mezzelfa si arma di tutta la buona volontà della quale è capace, pur combinando ogni tanto qualche disastro dettato dalla giovane età: è di stazza minuta, ha un corpo esile come un fuscello ed è veloce come una scheggia. Non fa che parlare per tutto il viaggio, aspettandosi di trovare grandi meraviglie una volta giunta alle porte della grande città.
Narbet è una grande città, dovrà quindi avere necessariamente un castello: di quelli enormi e sfarzosi, con mille ricami dorati sui capitelli delle colonne, mercanti a smerciare prodotti sul portico ed un principe dagli occhi verdi ad attendere il suo arrivo. Sì: un principe che ha a malapena intravisto dalla porta della sartoria appena qualche anno prima, ma sul quale non ha fatto a meno di fantasticare nemmeno per una notte, da allora. Dovrà essere necessariamente gentile, come tutti i principi, e con un po’ di fortuna le sorriderà anche, dall’alto della sua statura.
È lui che si aspetta di trovare, una volta giunta a destinazione.
Ciò che la attende, invece, è un ragazzino di circa quattordici anni, a giudicare dall’aspetto, dalla spettinata chioma corvina e due occhi di smeraldo freddi come la neve d’inverno. Si chiama Myzair: è un mezzelfo come lei, ma in comune sembrano avere ben poco oltre alle orecchie lievemente appuntite. E per di più, non sembra affatto apprezzare la sua presenza: non fa che prenderla in giro affibbiandole nomignoli sgradevoli ed arrampicarsi sugli alberi approfittandosi della sua bassa statura per isolarla. Si dimostra a dir poco intrattabile nei suoi confronti: tuttavia, quel che il poveretto non capisce è che così facendo non la rende che più desiderosa di conoscerlo, proprio in virtù di quella sua viscerale curiosità che non l’abbandona mai. È un giovanotto testardo, ma Ianae lo è mille volte di più: quando lui si alza presto per uscire di casa senza incrociarla, lei si sveglia prima di lui per assicurarsi di non perdere la sua uscita dalla porta; quando lui si addentra tra gli alberi in cerca di un posto isolato per studiare, lei non manca di seguirlo passo dopo passo, obbligandolo a lasciar perdere i libri per giocare con lei.
Per quelle settimane – e tutte le successiva, che si succedevano di stagione in stagione, di traversata in traversata sul carretto – Ianae non fa altro che rincorrerlo per la casa, per i boschi, tra gli alberi e perfino per i campi, senza lasciarlo solo un singolo minuto. E, inevitabilmente, comincia ad affezionarglisi. Quei modi malevoli di apostrofarla diventano presto i suoi soprannomi preferiti: sostitutivo del colloquiale “Nae”, che suo padre ha coniato per primo e la piccola Amalys (secondogenita di Wordon) è tanto felice di usare in continuazione, diventa “Scricciolo”, nome al quale risponde con altrettanto entusiasmo di chi lo pronuncia.
Passano i mesi, gli anni, Myzair – da lei detto
folletto a causa delle orecchie a punta molto più pronunciate di quelle di chiunque altro tra i mezzelfi – diventa ben presto un amico fidato, il più prezioso che ha. Il passo alla fase successiva è addirittura più breve: la bambina si trova inspiegabilmente e sempre più spesso a pensare a lui, durante i periodi in cui non possono vedersi, e a contare i giorni che separano una stagione dall’altra in attesa di ritrovarlo ad attenderla in occasione della fiera, in piedi su un albero alle porte della città. Quei nuovi sentimenti, che si ritrovano entrambi a scoprire con immensa sorpresa, sfociano ben presto in un bacio inesperto e in una promessa di rivedersi ancora, sempre insieme, sempre sotto quel salice che li aveva ospitati per tanti anni nei loro giochi cosparsi di risate.
Quello che i due non immaginano è che quella promessa dovrà attendere dieci anni, prima di vedersi realizzata.
Sono trascorsi quattro giorni dal loro rientro.
Quella mattina esce di casa per andare a giocare, dopo aver salutato i genitori con due schiocchi sonori sulle loro guance e un sorriso allegro in volto. Ianae corre fuori, all’aperto. Ha tredici anni ormai, ma non ha perso un solo briciolo della vitalità che l’ha sempre caratterizzata. Cerca i suoi compagni, vuole raccontare loro delle sue ultime novità a proposito del suo caro amico, poi vuole cogliere dei fiori selvatici per portarli al fratello, che ha avuto tutto il tempo di contrarre una brutta influenza in grado di costringere un demonietto come lui sotto la coltre calda delle coperte. Sono fuori stagione, perché è inverno, ma se è abbastanza fortunata potrà trovarne qualcuno più resistente degli altri e in grado di sostenere le basse temperature: la neve non è caduta ancora, quest’anno, e sa per certo che ci sono delle calendule luminose, al confine, che resistono fino alla prima precipitazione.
Ma dove sono tutti? Le strade sono affollate, piene di passanti, di commercianti, di vita e caos. Poi li intravede: un gruppo di bambini pressappoco della sua età, in fondo alla via.
Corre. Li saluta e ascolta: oggi si va nei campi, vanno a giocare fuori dalle mura perchè in strada, qualche giorno prima, il fabbro li ha rimproverati e minacciati di "appenderli con un chiodo alla parete del suo negozio". I bambini sono piccoli, hanno paura del vecchio fabbro, che neanche alla ragazza piace: preferisce di gran lunga il padre di Myzair, più allegro e giovale per quanto mastodontico rispetto alle sue minuscole dimensioni. Un giorno, si dice, lascerà quel paese e andrà a vivere nella città dell’amico lontano, dove tutti sono gentili e i negozianti bisbetici non la infastidiranno più.
Ianae sa che non dovrebbe uscire da Savia, i suoi genitori gliel'hanno proibito diverse volte. Dicono che è pericoloso, perché Savia non è grande come Narbet, non ci sono le guardie a controllare i confini. I tempi non sono dei migliori, per addentrarsi al di là delle porte: si parla di intrighi e di tradimenti, si temono agguati, si vocifera di scomparse lungo i bordi della Terra della Notte. Notizie di eserciti in marcia fanno tremare la popolazione in continuazione.
Ma non lei: Ianae è curiosa. Vuole vedere cosa c'è dall'altra parte, vuole giocare nei campi, intrecciare i fiori e magari farne una collana. Se imparerà bene, potrà farne una anche per Myzair quando si rivedranno.
Corrono.
Trascorrono la mattinata a correre nei campi, a raccogliere fiori e raccontarsi storie. Lia, una delle sue confidenti, si mette a ridere quando la sente parlare del bacio, la prende in giro, poi si lascia sfuggire qualche commento divertito ed entrambe ridono. Per mezzogiorno tornano indietro, stanche e affamate: tra poco sarà ora di pranzo, forse Soe ha cucinato qualcosa di buono. Si aspettano di rientrare dai confini della città come se nulla fosse, mescolandosi nel caos di ogni giorno e nascondendosi alla vista del vecchio fabbro per evitare la solita ramanzina.
Ma ciò che si presenta loro, invece, è uno spettacolo macabro: intorno a Savia, tutto è lambito dalle fiamme; come giganti, informi colonne di fumo si innalzano dalle abitazioni incendiate, minacciose, mentre uomini in abiti neri entrano ed escono con lunghi bastoni appuntiti. Ianae sa cosa sono e ha paura. Ha tredici anni, ma non è una sciocca. Sa che avrebbe dovuto restare a casa. Deve tornare subito, prima che mamma e papà scoprano tutto e si arrabbino con lei, prima che i giganti di fumo la schiaccino sotto la loro mole.
Ignorando del tutto i compagni, entra dalla porta a sud, la più vicina a casa sua, riuscendo rapidamente a sfuggire a tutti i soldati. Un bambino in genere non riuscirebbe a scappare, ma lei è veloce, è molto, troppo veloce per loro. Merito delle tante corse nei campi con i compagni, probabilmente, o della bassa statura: non sa dirlo e non le interessa scoprirlo.
Riesce a entrare senza troppi problemi, ma preferirebbe essere rimasta fuori, adesso.
La città è deserta. Per terra, ci sono solo panni strappati, cibarie cadute e macchie. Macchie vermiglie, cremisi, rubino. Ianae si convince che si tratta di fiori, fiori sbocciati fuori stagione, perchè a Savia e Narbet è la stagione delle piogge prima delle nevicate e col freddo le piante perdono le foglie. Vorrebbe raccoglierli, portarli a Ivlis, ma toccandoli si disfano in una poltiglia densa e maleodorante. Decide che non sono abbastanza belli, che ne troverà di migliori, come le calendule luminose.
Passa da un vicolo che più rapidamente dovrebbe condurla a casa, è così concentrata sull'obiettivo che non si accorge neanche dei corpi a terra. Ce ne sono a dismisura, alcuni accatastati gli uni sugli altri, alcuni abbandonati a giacere nel proprio sangue, altri smembrati.
Ianae raggiunge la porta di casa, la riconosce. La maniglia è sporca di quella sostanza appiccicosa dal sapore ferroso e di un rosso impressionante. La tocca, ma non serve esercitare pressione: è già aperto. Forse la mamma la stava aspettando per il pranzo, magari è arrabbiata per il suo ritardo. Ianae, a testa bassa, muove dei passi verso l'interno, pronta a ricevere una ramanzina. Ha gli occhi chiusi, con forza.
«Mamma…».
Quando li apre, lancia un urlo che le perfora il cranio, la mente, come un ago acuminato. A terra, il corpo della madre, disteso su un fianco, privo della testa, da cui sgorga sangue ininterrottamente, sembra cercare di raggiungerla con le mani protese in avanti. Il padre è poco più a sinistra, con il ventre a terra, il viso rivolto verso la moglie, gli occhi spalancati a fissare il vuoto. Anche dalla sua bocca fuoriesce quel liquido denso e vischioso, assieme ad un rantolo soffocato. Di suo fratello Ivlis, nessuna traccia.
Tlack, tlack, tlack. Ianae sente dei passi. Alle sue spalle. Forse dovrebbe restare con i genitori, ma la loro vista la devasta e la disgusta enormemente. Corre verso la cucina. Scivola su una pozza di sangue. Si rialza, irrimediabilmente macchiata, spingendosi contro un angolo della stanza e pregando di non essere vista. Vorrebbe tanto non essere sola, vorrebbe avere Myzair al suo fianco, perché è tutto come dice la loro canzone: quando è con lei, allora va tutto bene. Invece, lui ora non c’è: davanti a lei, si stagliano due figure estranee, scure, non riesce neanche a distinguere i volti dagli occhi affollati di lacrime. «Questa è anche carina, no? » dice uno, mentre le arpiona il polso con le unghie. Ianae spalanca la bocca per urlare, ma dalla gola non esce alcun suono. «E’ un po’ più piccola dell’altra, ma almeno non scalcia così forte. Fattela bastare.»
Delle mani scure, oleose e unte la afferrano per una caviglia malamente, tirandola indietro.
Quanto segue, poi, è un insieme di immagini sconnesse e dolorose, stoffe strappate e figure mostruose. La bambina piange tutte le sue lacrime, urla disperata, si dimena per divincolarsi, chiede aiuto… ma è inutile, nessuno correrà a salvarla. Nemmeno il suo Myzair, che è lontano, non può sentirla.
Soltanto alla fine, comprendendo di essere stata completamente abbandonata a sé stessa, qualcosa di istintivo dentro di lei prende il sopravvento sulla sua mente. Afferra il primo oggetto contundente che trova: è un coltello, piuttosto rozzo, ma affilato. Il suo cuore sembra sul punto di esplodere.
Ora è sveglia.Corre.
Ianae corre, corre e non si ferma neanche per prendere fiato. Non è più un gioco, non c’è un premio ad attenderla una volta raggiunto il traguardo. Non ci sono i suoi amici, non ci sono i suoi concittadini, non c’è nemmeno il vecchio fabbro a gridarle dietro: dal villaggio si solleva un unico, solenne lamento, uno straziante invito a scappare più in fretta che può dalla morte che sta venendo a prenderla. Le lacrime le inondano il viso, le annebbiano la vista. Si addentra nella foresta, sente i passi delle guardie vicine, lo scricchiolio delle foglie secche sotto i loro passi. Terrore. Sente il fiato schioccarle in fondo alla gola; inciampa in una radice, ruzzola a terra, sbatte la testa con violenza contro una pietra. Si addormenta senza nemmeno rendersene conto.
Ecco,<i> pensa, appena prima di chiudere gli occhi <i>ecco, adesso muoio anche io.
Invece, gli occhi li riapre. Ma non è più al limitare della foresta: se ne accorge perché non riconosce la frazione del bosco in cui si trova: voltandosi lentamente – la testa fa ancora male – non riesce a intravedere neanche un lembo delle pianure attorno a Savia. Non ci sono i campi fioriti, non ci sono gli arbusti che circondano quel fazzoletto verde dove era solita giocare coi suoi amici. È finita oltre il territorio in cui le è permesso bighellonare: sussulta, la mamma si arrabbierà, il papà la punirà, loro… no, che sciocca. Non ci saranno più rimproveri, non per lei. Non è rimasto più nessuno.
Soltanto dopo un vagare vuoto del suo sguardo attorno a lei che dura parecchi minuti, finalmente, Ianae nota la figura di un ragazzo poco più grande di lei, che la osserva con serietà, ma dopo un po’ prova ad abbozzarle un sorriso. Le offre dell’acqua. La ragazza lo guarda con curiosità; avrà pressappoco la stessa età di Myzair, ma non gli somiglia affatto: non è alto quanto lui, dalla folta chioma leonina color della notte non sbucano orecchie a punta, i suoi occhi dello stesso colore dei tronchi d’abete che li circondano. Ha delle labbra finissime, come fogli di carta, e un sorriso strano, teso da un solo lato del viso perfettamente ovale. Non conserva nulla dei tratti nobili di Myzair, ma nella disperazione del momento la bambina impiegherà davvero poco ad abituarglisi.
Impara presto che si chiama Alastair: è un fuggitivo di un villaggio poco distante, attaccato come Savia da un esercito del quale non conosce l’identità. Sta cercando di raggiungere Narbet prima dei soldati che stanno razziando il territorio, perché crede sarà più protetta di qualunque altro luogo. Sa che ci sono delle milizie nella capitale, che il consiglio si prepara a respingere la minaccia in arrivo: daranno loro asilo, un rifugio. Ma Ianae non ha bisogno di farsi convincere per seguire quel piano. Narbet significa Myzair, significa abbracciare l’unica persona al mondo che vorrebbe vicina in un momento come quello. Perché lui sa sempre cosa fare, in ogni situazione. Sa come farla smettere di piangere quando cade e si graffia le ginocchia; sa come farla ridere quando fuori piove e non possono uscire a giocare. Myzair sa sempre tutto. Come potrebbe essere diverso, stavolta?
Ianae e Alastair si mettono in viaggio di buon mattino, con adeguate scorte di erbe e frutti che, forte delle sue conoscenze, la bambina è stata in grado di raccogliere per qualunque evenienza. Si spostano cauti e a piedi, facendo attenzione a non incrociare alcun malintenzionato. Un paio di volte sono obbligati a correre a perdifiato per sfuggire ad un aggressione di un paio di sciacalli in cerca di fortuna facile sulla pelle dei profughi. Incontrano anche alcuni reduci di Savia – una coppia di giovani sposi e due mercanti – ma nessuno di loro li segue, preferendo cercare di attraversare il confine in vista della Terra dei Giorni e la grande Seferdi.
Continuano la loro marcia da soli, con speranze e aspettative che pian piano coprono con una coperta dorata tutto il rosso del sangue che hanno dovuto sopportare di fronte ai loro giovani sguardi. Fino all’ultimo giorno di cammino.
Rosso.
È tutto ciò che Ianae riesce a vedere, davanti e dietro di sé: il rosso del sangue dei suoi genitori, il rosso delle fiamme che si innalzano come lingue roventi dalle abitazioni distrutte di Narbet, schiacciate da quelle colonne grigie che paiono sostenere il cielo per impedirgli di crollare loro sulla testa.
Alastair le prende la mano, cerca di tirarla indietro e convincerla a trovare un’altra strada per la frontiera, dove troveranno certamente qualcuno disposto ad aiutarli; ma lei non si lascia abbindolare, deve trovarlo, deve
vederlo, assicurarsi che stia bene perché non potrebbe concepire una sola stagione della sua vita senza quel suo modo improponibile di chiamarla
scricciolo e quelle orecchie appuntite che balzano, impertinenti, dalla chioma bruna che gli piove dal capo.
«Myzair!» grida, correndo per le strade che con lui ha percorso un milione di volte «Myzair! Sono tornata!». Ma non c’è più nessuno per rispondere alle sue invocazioni: soltanto uno sconfortante silenzio, riempito a malapena dallo scoppiettio delle fiamme e dalla tosse che la soffoca a causa del fumo nell’aria.
Ma non basta, ancora non basta. A nulla servono le suppliche di Alastair e i tentativi di farla ragionare. Lei deve trovarlo. Deve essere certa che stia bene, che nessuno gli abbia fatto del male. In fondo, se lei è sopravvissuta, lui che è molto più intelligente, molto più sveglio, molto più alto di lei deve per forza essere in salvo.
Giungono in vista dell’abitazione di Wordon dopo parecchi minuti di marcia. Si trova dall’altra parte della città, per raggiungerla hanno dovuto schivare parecchi soldati, rischiando di essere massacrati a loro volta almeno in un paio di occasioni. Come tutte le case nei dintorni, anche questa è in fiamme: il piano superiore è collassato, ripiegandosi verso l’interno, e dalle finestre che dovevano affacciarsi sulla camera di Amalys ora si innalza una nube densa e nera. Dalla porta d’ingresso prendono la loro strada impronte rosse come quelle che percorrevano la sua stessa dimora, qualche giorno prima.
Non ha il coraggio di guardare. Si obbliga a fare i passi che la separano dall’entrata con una fermezza spaventosa, senza riuscire a trattenere le lacrime che le inondano gli occhi. Sta per aprire la porta, quando una trave in fiamme le crolla davanti, impedendole il passaggio. È Alastair a tirarla indietro, appena in tempo per evitare che anche lei rimanga sepolta tra le macerie di quell’edificio, che infine cede tutto d’un colpo, lasciando dietro di sé niente più che un mucchio di pietre e polvere. E tra i tralicci e i cocci rotti, poco prima che venga morsa dal fuoco divoratore, Ianae la vede: è una mano, quella che spunta dal cumulo di rottami.
Il cuore, istantaneamente, si ferma. Alastair la trascina via, la stringe tra le braccia, la obbliga a non guardare mentre anche quell’ultimo ricordo si carbonizza assieme ai resti della sua infanzia con Myzair. Sono tutti morti, adesso lo sa. Non è rimasto più niente. Anche del suo nome, con il suo fresco profumo di primavera, non resta che cenere dispersa nel vento.
Non si lascerà mai più chiamare Ianae.
Dal momento della fuga, assume il nome di Lyanna e come tale si presenterà a chiunque le domanderà qualcosa riguardo la sua identità. «
Lyanna, dalla Terra del Mare.» risponde alle guardie d’accesso a Seferdi: quello stesso mare che Myzair aveva promesso di mostrarle, ma che al suo fianco non vedrà se non nei suoi sogni.
Assieme ad Alastair viene bloccata alle porte della città. Viene loro richiesto di raccontare l’accaduto all’interno di una stanza nella caserma, poi firmano un documento estremamente complesso, che non leggono neanche. Sono troppo stanchi per farlo, il ragazzo sa a malapena scrivere, l’altra a gli occhi che bruciano per le troppe lacrime versate. Danno per scontato che saranno aiutati, che qualcuno verrà a prenderli per portarli laddove nessuno potrà più far loro del male.
Vengono designati per un trasferimento. La destinazione è Laodamea, dall’altra parte del Mondo Emerso. Lyanna sa che dista parecchie settimane di viaggio perché è da lì che veniva sua madre. Forse hanno rintracciato dei parenti lontani: forse verrà ospitata da qualche zio, come quel famoso
zio Alastor del quale ha soltanto udito chiacchiere prive di consistenza. Ecco che si profila la speranza di una nuova vita, di un nuovo inizio.
Invece, ben presto sia lei che Alastair capiscono che la realtà è ben diversa da quella che credono. Non è una casa quella dove verranno accolti, ma una prigione. Inizialmente, vengono ricongiunti dopo due giorni di interrogatori amichevoli, poi riuniti in una stanza e preparati per il viaggio, convinti di recarsi in salvo. Quella che è stata fatta firmare loro, però, non è una dichiarazione. È una confessione, piuttosto, un’ammissione di colpa riguardante la morte dei loro cari, dei quali senza saperlo si sono assunti la responsabilità.
Le guardie che hanno raccolto le loro testimonianze cominciano a sparire: svaniscono nel nulla, senza lasciare alcuna traccia. Il viaggio subisce diverse deviazioni. I due compagni cominciano a capire che qualcosa non va quando ascoltano inquietanti parole riguardanti ‘informazioni scomode’. Decidono di scappare a pochi giorni dall’arrivo a destinazione: e questa scelta rappresenta la loro salvezza, perché appena fuori Laodamea c’è un’imboscata preparata adeguatamente per fare in modo di chiudere le loro bocche una volta e per sempre.
Da quel momento, Alastair e Lyanna vivono la loro esistenza da fuggitivi, senza mai fermarsi troppo in un solo luogo, ma spostandosi di terra in terra senza sosta per dieci lunghi anni, l’uno al fianco dell’altra.
Per necessità, entrambi hanno ben presto imparato i rudimenti della lotta – nei quali il giovanotto era già da tempo ferrato – e la ragazza affina le tecniche curative apprese nell’erboristeria della madre. Tutti e due si lasciano alle spalle ogni frammento del loro passato: i ricordi diventano cicatrici sulla pelle e queste, a loro volta, vengono sapientemente coperte con garze bianche sotto gli abiti anonimi. Soltanto quella che porta il nome di Myzair, alla fine di quel tortuoso percorso, sembra rimanere per Lyanna una ferita costantemente aperta.
Nella notte, ha ancora l’impressione di sentirlo cantare dolcemente, sottovoce, quasi avesse paura di svegliare gli altri morti che riposano attorno a lui.
Se ci sei tu, allora va tutto bene… no?